Il figlio di Saul (2015)

Ungheria | László Nemes | 107 min

Saul è un sonderkommando, un prigioniero ebreo costretto a collaborare con le SS nelle operazioni di sterminio all'interno dei lager nazisti.

Nei pochi mesi di vita che gli spettano spinge i deportati, dopo averli svestiti, verso la doccia di Zyklon B, ne depreda i cadaveri prima di darli in pasto ai forni crematori, per poi disperderne le ceneri nel fiume, "carico" dopo "carico", "pezzo" dopo "pezzo", uno delle migliaia di manovali
della perfetta industria della morte messa in opera dalla Germania del Terzo Reich.

L'esordio alla regia del giovane László Nemes è il racconto dell'ossessiva ricerca di redenzione di un uomo che vuole dare dignità alla morte in un luogo d'inumano disprezzo della vita, un'opera brutale che ti costringe ad accalcarti vicino al protagonista, a sentirne il respiro, ad osservare quegli occhi spenti e lucidi, imprigionato all'interno di un claustrofobico e asfissiante 4:3.

L'orrore è sullo sfondo, sfocato o raramente palesato, ma ti assale mediante l'audio, un inferno di urla, pugni su porte, suppliche, pianti di bimbo, parlottare sommesso, ordini impartiti con rabbiosa autorità, spari e l'incessante respiro infuocato dei forni crematori, fauci voraci ingozzate con migliaia di vite interrotte.

Il figlio di Saul (Saul fia in ungherese) è il fumo dei corpi bruciati che ti appanna la vista per giorni, che ti costringe a ricordare perché brucia le pupille fino alle lacrime, perché tutto questo è successo, succede e succederà ma non deve essere dimenticato, sminuito, giustificato.

Guardatelo con le persone a voi più care e discutetene, soprattutto alla luce della deriva xenofoba che divampa nell'Italia odierna, perché l'odio si nutre del presente e solo la memoria può smascherarne i veri intenti, sbuggiardarlo, arginarlo.

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